venerdì 24 ottobre 2014

«Aborto d’amore», recensione di Carlo Di Pietro *


      
            «Lacrime eugenetiche», romanzo firmato dall’attento autore italiano Marco Bazzato, attualmente residente in Bulgaria, racconta, a mio avviso, il dramma dell’essere disilluso dalla contemporaneità. Tragedia umana che adesso assume il volto del conflitto a sfondo sessuale, «mantra» dei media, talvolta con dipinte accentuazioni di farsa, che certamente nasce dalla «pneumatica contraddizione» insita nell’animo «alterato» dell’uomo moderno. Mi stupì, anni fa, il titolo alternativo, oggi divenuto quello definitivo, all’opera, «Aborto d’amore», sicché mi interrogai su come fosse possibile associare, certamente non manco di vena polemica, la parola «amore», massima espressione della vita, con la parola «aborto», che della morte indegna fa vanto.
            Nulla di più contraddittorio quindi, sicché anche l’assunto di partenza, utilizzato dall’amico Bazzato per estendere la sua narrazione - ovverosia gli articoli inerenti alla sussistenza del presunto «gene dell’omosessualità», poi seguiti dalle dichiarazioni rilasciate dal cantante, ex Wham,  George Michael nel  2007  - appare evidentemente «pretesto» di una certa «illogicità alla moda».
            La grottesca ma avvincente circostanza della famiglia Rampin - protagonisti sono il padre Francesco, la madre Arianna ed il figlio Mattia - è ambientata nel Veneto ed in parte nel Lazio, in un Comune del veneziano, ma a ridosso della provincia di Padova e a Roma. Il linguaggio e le espressioni gergali, scritte in italiano, sono per lo più tipiche della realtà identitaria veneta, spesso proposizioni attinte dal folklore locale.
            Arianna, donna riflessiva perciò combattuta, ha già avuto un primo figlio, Mattia, poi due gravidanze purtroppo interrottesi a causa di due aborti spontanei, ed ora, alla quarta attesa - ottima occasione per superare le normali problematiche coniugali (accentuate dal «passionalismo» dei soggetti coinvolti) - la donna decide di consultare la sua ginecologa per accertarsi sullo stato di salute del feto. Su consiglio della dottoressa «di fiducia», si rivolge pertanto ad un centro privato di Padova, non convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale, dove potrà fare anche degli accertamenti prenatali genetici più approfonditi.
            A questo punto, non prima, la mano dell’autore si tuffa totalmente nella conflittuale modernità - con tutte le sue conquiste, nel bene ma purtroppo anche nel male - quando, oltre alle rassicurazioni che il feto non soffre di malattie genetiche, i due coniugi, Francesco ed Arianna, ricevono la notizia che l’indifesa creatura, custodita in grembo dalla donna, porta il «gene dell’omosessualità», che, in base a  diversi fattori ambientali e sociali, potrebbe, una volta cresciuta, diventare omosessuale. 
            Marco Bazzato così facendo, dunque prendendo spunto da un assunto che può apparire anche «diversamente scientifico», descrive il dramma interiore della donna e dell’uomo, futuri genitori di un probabile «gay», ponendo l’accento sui rapporti interpersonali dei due soggetti con i loro amici, buoni o cattivi consiglieri, con la società, vilipesa nell’intelletto o meno, e finalmente con i media. Il caso diviene così, dapprima, d’interesse regionale e, successivamente, nazionale, prestandosi alle più spietate strumentalizzazioni, coinvolgendo anche il marito di una nota giornalista TV che, durante un servizio in loco, sembra manifestare privatamente particolari attenzioni per un uomo. È scandalo negli stessi ambienti dove non lo è. Quale risibile incoerenza!
            In un turbinio di «sentimenti» e nell’alternanza di vicende, fra rimorsi di coscienza e timori di essere etichettati come «omofobi», non già come probabili assassini, si accende così il dilemma dei protagonisti all’insegna del conflitto fra l’uso della retta ragione, che ha origine nella Natura e ad essa porta, e la visione «esasperatamente romantica», che il mondo vuol dare oggigiorno alla «diversa sessualità vissuta».
            Una serie di interrogativi turba fortemente i già fragili coniugi: tenere il bambino o ucciderlo, in ragione della sua presunta futura omosessualità? E cosa c’è di difficile nell’avere tendenze oggettivamente disordinate? E cosa di sbagliato c’è in un aborto? È forse peggio correggere un disordine (morale) o uccidere una creatura? Queste le principali domande, difficili da risolvere per chi è intellettualmente confuso. Ecco che l’autore riesce a cogliere acutamente, sebbene forse inconsciamente, la somma dei pensieri veramente turpi di quei soggetti (che appaiono, a tratti, anche in «buona fede»), che sono da una parte abbandonati nel discernimento, dall’altra totalmente soggiogati alle loro disordinate passioni, vittime dei «consiglieri della porta accanto», eppure la loro coscienza «borbotta».
            La triste vicenda, che poteva concludersi in un attimo, prosegue, come conviene al miglior dramma, fino all’esasperazione, con due lutti e addirittura con una scelta inaspettata del figlio Mattia e, lo si leggerà, con la conclusiva assurda decisione del signor Francesco.
            Di lettura piacevole ed appassionante, il testo deve per forza far riflettere su come l’uomo contemporaneo ami complicarsi l’esistenza vivendo di attenzioni per l’effimero - dalle facili critiche, alle inutili paure di risultare invisi ad un mondo logoro e corrotto - e di quanto possa essere abbandonato a se stesso, in un ambiente che ha fatto della morte e della sovversione un messaggio quasi normale, buono, sussistente al bene. Niente di più illogico e contraddittorio, come dimostrano la scienza e la storia!
            Se anche l’innocente creatura fosse stata «affetta» da questo presunto «gene dell’omosessualità», ed io non lo credo affatto, è forse la morte (ovvero l’aborto) la giusta soluzione? Perché pensare ad un gesto così disumano e condannato dalla storia, invece di capire che il giusto esempio coniugale e che il vero amore insegnato, correggendo il disordine, producono vita e bene in ogni dove? Ecco che l’intelletto, quando sposa la Causa Superiore del Bene metafisico - per me che sono cattolico: Dio - è in grado di portare l’uomo alla comprensione del vero senso della vita, realtà che si ottiene e si trasmette, ascoltando così il messaggio interiore della Legge Naturale che, di certo, non vuole né l’aborto né tantomeno la pansessualizzazione; tutti disordini indotti da fattori esterni e sovversivi, questi, che inequivocabilmente si presentano come un ostacolo allo sviluppo della società civile che intende a tal fine riprodursi, essere ordinata alla Natura e durare fin quando sarà necessario.
            Marco Bazzato coglie e dipinge esattamente le tante sfumature dell’illogica esistenza di chi vive - alla mercé del mondo - di contraddizioni. Questo ho percepito e tanto scrivo, comunque ignaro delle intenzioni dell’autore.


*Carlo Di Pietro, Giornalista e scrittore, autore di numerosi libri e saggi a sfondo religioso e teologico. La sua ultima pubblicazione è “Apologia del Papato”, ed Effedieffe, 2014, molti suoi articoli si trovano su  RadioSpada.

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